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What is a woman

Pierrette Lavanchy





What is a woman

Pierrette Lavanchy


Col titolo What is a woman? è apparso sul New Yorker del 4 agosto, a firma di Michelle Goldberg, un articolo centrato sulla lotta tra le femministe radicali e le transgender, cioè le persone che si dichiarano donne pur essendo nate con un corredo genetico e anatomico maschile. Le Radfems, cioè “radical feminists”, rifiutano le trans, non vogliono la loro presenza nelle toilette e negli spazi di riposo riservati alle donne, né la loro partecipazione a eventi concepiti per sole donne. Le escludono, per esempio,  dall’iscrizione a un campo estivo musicale denominato Michfest, sulle rive del lago Michigan, che è esplicitamente only for womyn-born womyn. L’articolo apre, o riapre, la questione dell’identità femminile, che cosa sia una donna, e che cosa sia una donna transgender.
     La disputa è iniziata più di 40 anni fa, nel 1973. Allora si parlava di “transsessuali”, non di “transgender”, concetto più esteso e suscettibile di ulteriori estensioni. Secondo le femministe era un atto di arroganza, da parte delle transgender, pretendere di sapere che cosa sia essere una donna. Lo può sapere, dicevano e dicono ancora, solo chi lo ha vissuto e subìto fin dalla nascita. Più esplicitamente scriveva Robin Morgan, un’esponente del movimento: «Non voglio chiamare “lei” un maschio; con trentadue anni di sofferenze in questa società androcentrica, e riuscendo a sopravviverci, mi sono guadagnata il titolo di “donna”; e questo qui, con una sola passeggiata per strada e cinque minuti di molestie che magari gli piacciono, questo osa, dico osa pensare di  comprendere i nostri dolori? No, nel nome delle nostre madri e di noi stesse non dobbiamo chiamarlo sorella».
     Per giustificare il loro rifiuto, le femministe fanno appello a un concetto di genere di tipo culturale, sociologico. Le donne, sostengono, sono una popolazione oppressa dal potere maschile; sono state educate nella prospettiva di una subordinazione all’uomo; la loro sottomissione non dipende dalla natura, ma dalla cultura. Le donne hanno subìto la disparità di condizioni, non hanno avuto scelta. Se ora vi sono personaggi, maschili per nascita, che pretendono di essere donne, solo perché scelgono di esserlo, sono degli impostori; sono maschi e si comportano da maschi perché l’atto stesso di scegliere è una prerogativa maschile, da classe dominante.
     Sul piano logico questo argomento sembra saldo. Ma ha due limiti. Sul piano sostanziale, presuppone per le donne un’identità di vittime, intrinsecamente prive di potere. Sul piano retorico, si fonda su un aspetto parziale della posizione femminile. In effetti, il dominio dell’uomo si manifesta, a volte legalmente, a volte abusivamente, in forme sessuali. E il motivo per riservare un evento come il Michfest alle sole donne è proprio il bisogno delle donne di avere uno spazio assolutamente libero, dove poter passeggiare senza timore nei boschi di notte, senza il timore di cattivi incontri. È evidente che ogni essere diverso dalla donna nata donna è percepito come un pericoloso infiltrato.
     Ci si chiede quindi perché le femministe debbano rifiutare le trans sulla base di una loro caratteristica culturale, il potere di scegliere, e non sulla base delle loro caratteristiche maschili biologiche e anatomiche; perché ricorrere all’argomento culturale, sofisticato e intellettuale, per escludere le trans, piuttosto che all’argomento dell’identità sessuale in senso stretto. La ragione di questo sembra legata al favore di cui gode attualmente il concetto di genere molto esteso adottato dal movimento trans. Per questo movimento il genere, diversamente dal sesso, è determinato molto soggettivamente, dal modo in cui una persona “si vede”, da come sente di essere. La biologia, i cromosomi, gli organi genitali sembrano non aver alcun peso in questo concetto. Solo una piccola parte delle persone transgender cerca di essere riassegnata al genere opposto mediante intervento chirurgico: uno su trentamila per i maschi, una su centomila fra le femmine. Più spesso assumono ormoni, ma può essere sufficiente per loro identificarsi al genere opposto.
     Ora anche il femminismo, nel predicare e perseguire un’uguaglianza di genere in campo sociale, economico, accademico, giuridico, politico, si basava sulla minimizzazione o sulla negazione di alcune differenze, per esempio tra cervello maschile e cervello femminile. Ma l’elasticità del nuovo concetto di genere oltrepassa di molto la concezione femminista. Al cospetto del movimento trans che nega totalmente l’importanza della biologia, le femministe radicali sono sorpassate sul proprio terreno e rischiano di essere percepite non più come progressiste, bensì al contrario come estremiste reazionarie, vincolate al determinismo somatico. È per sfuggire all’accusa di discriminazione, così almeno pare, che cercano di situare il dibattito a un livello politico e di enfatizzare l’elemento sociologico e caratterologico del potere maschile, distinguendolo dalla biologia.
     Ma questo tentativo non impedisce al movimento trans, che sta assumendo sempre più forza nelle sue rivendicazioni e denunce, di tacciare le femministe di segregazionismo e di muoversi contro di esse con azioni di rappresaglie. Per esempio diffidando enti dall’ospitare le riunioni delle femministe, disdicendo relatrici compromesse con le avversarie, minacciando violenze. In qualche università la lotta antiemarginazione raggiunge vette surreali: viene proposto il bando dei pronomi personali “he” e “she”, da sostituire con neologismi neutri; si vuole proibire di usare la parola “donna” in connessione con l’argomento della gravidanza, per non ledere i diritti degli uomini trans.
     Certo ci sono anche pentimenti, de-transitioners, persone che tornano indietro, come è successo a una donna che, assumendo testosterone,  soffriva di palpitazioni e che non riusciva a sentirsi del tutto maschile, specie al momento di avvicinarsi sessualmente a una donna. Queste situazioni offrono alle femministe l’occasione di sottolineare la fluidità delle scelte transgender e di negare che corrispondano a una vera e propria “identità transgender”; tant’è vero che alcune loro esponenti raccomandano che le persone trans evitino interventi dagli effetti definitivi. Ma offrono loro anche l’occasione di distinguere il piano individuale, quello psicologico della sofferenza che motiva alcune persone a oscillare nella loro definizione di genere, dal piano politico che guarda agli obiettivi collettivi da raggiungere. Se cerchiamo di rendere chiaro ciò che spesso è reso in modo confuso nei loro scritti, il  punto centrale è che il femminismo, sia radicale sia moderato, ha il progetto di realizzare la totalità delle risorse della donna nel mondo attuale, non di occuparsi della psicologia degli uomini che soggettivamente possono sentirsi donne. Ancora più sinteticamente, le femministe si occupano delle donne, non degli uomini.





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