È meglio la post-verità o la pre-verità?
Filosofia di un neologismo
 

Da qualche tempo, in maniera più diffusa dal secolo scorso, si è affermata la tendenza a descrivere i fatti, gli oggetti attuali del mondo, dal punto di vista dei fatti, degli oggetti del passato, specialmente del passato prossimo immediato. Linguisticamente, per fare questo, si usa un aggettivo o un sostantivo che si applichino alle cose del passato, tipo “moderno”, e li si fa precedere da un prefisso “post-”, et voilà! Siamo nel post-moderno. In particolare, dagli anni Sessanta del novecento, il termine post-moderno è usato, a partire dall’inglese e dai componenti linguistici inglesi, per definire le varie tendenze affermatesi in architettura, e poi in letteratura, che frattanto cercano di distaccarsi dalle precedenti forme artistiche del passato immediato, considerate troppo razionalistiche, della modernità (modernità che infatti è il passato prossimo) e di recuperare invece nostalgicamente criteri, logiche, forme di un passato che precede il moderno. Il concetto di post-moderno entra infine nel dibattito filosofico nel 1979, con il libro di Jean-François Lyotard, dal titolo La condition postmoderne. Nel libro si afferma che la modernità (cioè, ciò che precede l’adesso) ha raggiunto il suo culmine e conseguentemente la sua conclusione, con la fine dei grandi racconti (grands récits), la libertà, l’uguaglianza, la verità naturalmente. Pensieri e considerazioni simili sono espressi da Gianni Vattimo, nei suoi scritti dedicati al pensiero debole, secondo il quale ci avviamo alla dissoluzione del passato, per cui si arriva ancora a un “post-”, con accenti dolorosamente mortiferi, misti a una pietà confusa verso ciò che non c’è più.

A questo termine di post-moderno, con l’accezione centrale di fine del moderno, negli ultimi mesi del 2016 il lessico si è arricchito di un nuovo neologismo che va nella stessa direzione, variamente scritto come “post-verità”, “post-truth”, “epoca post-fattuale”. Ancora domina il prefisso “post-”, che dovrebbe modificare il sostantivo o l’aggettivo che lo segue, facendoci sapere che, se prima eravamo nell’epoca della verità e dei fatti (prima, diciamo nell’epoca moderna), ora, nell’epoca della post-verità, siamo nell’epoca nella quale i fatti e la verità si sono evaporati, dissolti, lasciando lo spazio a qualcosa che ha molto a che fare con la non-verità, con i non-fatti. O meglio, come viene affermato, siamo in un mondo di cinquanta sfumature di “né vero né falso”. Sul Sole24ore del 26 novembre 2016, ci informano che l’Oxford Dictionary ha scelto proprio questo termine “post-truth” come nuova entry. Il termine in questione non includerebbe soltanto le panzane o bufale dei politici, tipo quelle diffuse in Itala nelle elezioni del 1948, con lo slogan «i comunisti mangiano i bambini» sotto l’immagine di un marmocchio che urlava disperato: «papà, aiutami!». Piuttosto si riferisce a qualcosa di né vero né falso, nel senso di non documentabile. Ma non è piuttosto qualcosa di semplicemente falso? Diversamente vanno le cose quando un utilizzatore della rete mette su Twitter la foto di un autobus con tanta gente dentro e il commento: «Le proteste anti-Trump non sono così spontanee come sembrano. Ecco l’autobus dei partecipanti», quando si tratta di un normale autobus di linea. Oppure si cita l’esperimento di psicologi i quali, dopo aver chiesto a un gruppo di studenti di tracciare uno scarabocchio sulla base del quale avrebbero fatto la loro diagnosi, distribuiscono una diagnosi uguale per tutti, nella quale ogni studente si riconosce. Perché? Perché ciascuno di loro desiderava crederci, secondo gli sperimentatori, o, pensiamo noi, perché volevano far credere allo sperimentatore che ci credevano. Recentemente, molti giornali e televisioni hanno fatto ricorso al concetto di post-verità, cioè alla non verità o non falsità dei dati, in definitiva alla impossibilità di controllare se i dati sono veri o falsi, per spiegare la vittoria di Trump negli USA, la vittoria della Brexit nel Regno Unito, la vittoria del No in Italia nel referendum del 4 dicembre 2016. Affermando che gli elettori non hanno valutato la verità di ciò che i politici dicevano, bensì hanno preso nei loro discorsi ciò che agli elettori sembrava vero, o faceva piacere credere che fosse vero.

In verità, tutte queste spiegazioni psicologiche peccano di un pregiudizio secondo il quale, se gli elettori avessero avuto accesso alla verità vera, avrebbero votato, non come volevano Trump, Cameron o Renzi, ma come il commentatore televisivo o di giornale avrebbe ritenuto giusto che una popolazione consapevole votasse. Si tratta, in mezzo a tanti “post-”, di un “pre-” che risale almeno a Socrate: se si sa la verità si vota giusto, e si vota sbagliato se non si sa la verità. Senza prendere parte, qui, né per una posizione né per l’altra, proviamo a restare nel campo di una ricerca critica quanto alla situazione temporale della verità. Ciascuno di noi, quando osserva un fatto, un fenomeno, un oggetto sensoriale, lo fa filtrandolo attraverso i suoi schemi mentali acquisiti (come potrebbe essere altrimenti?), i suoi pregiudizi, le sue pre-verità. Il racconto di Jean Piaget, di suo figlio il quale, passeggiando con il padre accanto al lago, dice: «papà, la luna cammina» è un esempio, scientificamente chiamato di assimilazione, nel senso che il bambino assimila il proprio universo di osservazione a schemi mentali preesistenti, secondo i quali ciò che a noi sembra muoversi cammina autonomamente. Solo più tardi il bambino verrà educato a altri schemi, che gli permetteranno di dire: «la luna è là, ferma, e a me pare che si muova quando cammino, ma non è così». Questo secondo schema deriva dal processo mentale della accomodazione per dire che il funzionamento psicologico del bambino si accomoda al mondo così com’è, nel senso di come gli appare con un nuovo schema di educazione. Nello scambio continuo fra assimilazione degli oggetti a schemi precedenti e accomodazione alla violenza degli oggetti, con la creazione di schemi critici successivi, si arriva all’adattamento, con la possibilità di creare schemi sempre successivi, e di vedere l’oggetto luna sempre più vero. Ma, ben prima dello sfruttamento fatto da Piaget delle intuizioni di suo figlio, Platone aveva descritto le tre fasi della verità, di oggetti sempre un po’ più veri, a partire da una verità sensoriale basica, un po’ meno vera, nel Mito della Caverna. Il dispositivo della caverna è semplice. C’è una caverna, con  un’apertura da una parte, e un fondo cieco chiuso dall’altra parte, fatto di una lavagna, diciamo. Un prigioniero è legato con la testa immobile a fissare la lavagna. Alle sue spalle, c’è un burattinaio che fa muovere dei manufatti, sculture di animali, uomini, alberi, su una passerella. Dietro al burattinaio c’è un fuoco acceso. Dietro ancora c’è l’apertura della caverna dalla quale si accede all’aperto, dove ci sono il sole, le persone, e gli animali e gli alberi, e gli altri accidenti della vita quotidiana. Ebbene, il prigioniero riterrà vere, all’inizio, le ombre proiettate dai manufatti del burattinaio investiti alle loro spalle dalla luce del fuoco artificiale. Questa è una prima verità alla quale accede il prigioniero. Ora, se il prigioniero è liberato dentro la caverna, dopo che si sarà ripreso dall’abbacinamento del fuoco, vedrà i manufatti, di cui vedeva prima solo le ombre, e considererà questi, cioè i manufatti, più veri delle ombre. Cioè, in termini moderni, dopo essersi disfatto di un pregiudizio, di uno schema di pensiero precedente, potrà accomodarsi a un nuovo schema di pensiero nel quale i manufatti sono oggetti più veri della loro ombre. Se poi il prigioniero uscirà dalla caverna, dopo essersi stropicciato ancora un po’ gli occhi per la luce abbagliante del sole, alla luce del solo vedrà laghi, alberi, persone, che prima vedeva come manufatti e prima come ombre. E considererà i laghi, gli alberi e le persone reali come più veri delle verità precedenti. In altri termini Platone, prima di Piaget, ribadisce che la verità attuale è sempre una post-verità rispetto a una verità precedente, e nello stesso tempo una pre-verità rispetto a una verità critica successiva. Così, se avesse osservato il programma della televisione con l’esperimento di Orson Welles, dei marziani che invadono New York, anche Platone avrebbe creduto vere le ombre che vedeva sullo schermo e sarebbe fuggito via, pensando disperatamente di non poter mai scampare al dramma. Se invece fosse stato più paziente, avrebbe potuto ascoltare altri programmi di altre reti, o fare una telefonata, e criticamente scoprire, accomodandosi a altri più adatti schemi mentali, che la verità delle ombre lasciava il posto alla verità più vera del burattinaio.

Con gli esperimenti di Platone e di Piaget, che cosa possiamo concludere sulle riflessioni di sociologi e filosofi che, all’insegna del prefisso “post”, cercano di cogliere le proprietà di universi prima inesplorati, utilizzando i neologismi di post-moderno, post-verità, post-fattuale? Due cose, prima di tutto, se ci è consentito di essere un po’ seriosi. C’è una certa superficialità negli articoli che trattano della post verità, che producono frasi del genere «cinquanta sfumature di né vero né falso». Che portano a pensare che una cosa può essere al contempo né vera né falsa. Ora, malgrado le suggestioni erotiche eventualmente vertiginose e confusionanti, non è possibile che una sfumatura, o un grigio, o qualsiasi cosa, sia al contempo vera e falsa. È il principio di non contraddizione, definito da Aristotele intorno al 300 a.C. (Metafisica, 1005). Detto anche principio anipotetico, per dire che si tratta di una proposizione che non può essere dedotta da alcun’altra ma che può essere verificata solo da argomenti che possono mostrare l’inconsistenza in cui cade chiunque contesti la verità del principio. Un’altra cosa, siamo ancora nel serioso, è che quasi tutti quelli che parlano di post-verità, come di post-moderno o di post-fattuale, sembrano avere difficoltà a accedere al concetto che una cosa non si può dire totalmente falsa né totalmente vera. Le sfumatura riguardano il grigio, ma anche la verità. Ogni oggetto è meno vero del medesimo oggetto guardato successivamente con occhi meglio educati, come sa qualsiasi persona che si sia dedicata artigianalmente alla osservazione delle cellule al microscopio o alle foglie di un susino. 

Sto dicendo allora che la formula “post-verità” rientra tra le trovate spiritose e brillanti ma inconcludenti? In un certo senso sì. È una formula che allude a qualcosa di ineffabile, rinviando non dalla parola detta all’oggetto al quale la parola si riferisce, ma dalla parola a altre parole, in quella che una volta si chiamava semiosi illimitata, che non approda mai al concreto dei fatti, ma resta sulla corda del trapezio delle parole che volteggiano sugli oggetti impossibilitate a posarsi su di loro. A ogni modo, non sarebbe possibile andar contro l’uso dei termini “post-verità” e “post-fattuale”, ormai entrati prepotentemente entro i riflettori con la forza di una moda. Bisognerà però solo aspettare un po’ e poi, non è difficile prevederlo, anche la post verità e il post fattuale, malgrado la entry sul Oxford Dictionary seguirà il destino del termine “post-moderno”, ormai sbiadito se non dimenticato.

Tuttavia, ciò che si può dire, è che i fautori della post-verità, del mondo post-fattuale, come pure quelli del post-moderno, hanno questo in comune, e cioè la velleità iconoclastica del nichilismo, o, per non usare termini impegnativi, dello scetticismo, che portano alla negazione o al dubbio esasperato, iperbolico, quanto alla possibilità della conoscenza e in particolare della conoscenza scientifica o artigianale. Dall’altra parte stanno, non solo i dogmatici, ma anche le persone che hanno bisogno del vero e del falso, pur nelle declinazioni di un oggetto più vero rispetto a un oggetto di base di partenza meno vero. Per esempio, dopo aver aperto un po’ di più o illuminato meglio la pancia di un paziente, il chirurgo può  accedere a un oggetto un po’ più vero rispetto all’oggetto di partenza intravisto nella semioscurità attraverso un pertugio troppo angusto. L’uso di metafore, appoggiate a neologismi, ridondanti di allusioni all’altrimenti indicibile, tanto che non erano mai stati usati prima, mostra in verità un approccio al mondo, ai fatti, agli oggetti, considerati ciascuno né veri né falsi, consegnandosi alla irrilevanza delle proposizioni che non rispettano il principio di non contraddizione. Sul versante opposto stanno le persone disposte a educare sempre più il loro sguardo, da una parte, e dall’altra non riluttanti a esercitare con pazienza, come dire, il lavoro del cuoco di togliere una dopo l’altro gli involucri del loro oggetto, come le foglie di una cipolla, o, più leggermente, di aspettare il lento strip tease dell’oggetto in esame affinché diventi sempre più nudo, qual è la verità ultima, la pre-verità  che precede la successiva verità più vera.

Quanto al titolo interrogativo di questa nota, se è meglio la post-verità o la pre-verità, se fossi costretto a scegliere, non esiterei a rischiare qualche lacrima degli occhi irritati pur di sfogliare la cipolla fin quasi in fondo, in modo di accedere, dalla pre-verità dell’oggetto sotto mano, a oggetti sempre un po’ più veri, ma in posizione di pre-verità rispetto all’oggetto successivo con una foglia in meno.

 
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