La passione della scrittura
Pierrette Lavanchy recensisce "Le parole e le lacrime", di Marialuisa Cavallazzi
 

La passione della scrittura

Pierrette Lavanchy recensisce Le parole e le lacrime, di Marialuisa Cavallazzi, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2015, p. 132, € 12,00.

Una bambina scrive una storia, rilega accuratamente i fogli con ago e filo, e porge il libriccino a sua madre. La madre pone il libriccino su un ripiano in cucina e lo dimentica lì: oggetto abbandonato, ignorato, disprezzato.

Fin dal prologo che racconta questo episodio, il tema centrale del romanzo di Marialuisa Cavallazzi Le parole e le lacrime è la passione della scrittura. La trama narra come, nel personaggio di cui si racconta la storia, la vocazione della bambina a scrivere, disconosciuta e intralciata dalla sua prima destinataria, si affermi in un groviglio di ricordi amari e resista a tentazioni distruttive legate alla maledizione materna. Vocazione della scrittura e ferita da disamore, fuse all’inizio in un amalgama tossico, nella rielaborazione della memoria verranno poco a poco separate, disgiunte, aperte a una forma di coesistenza tollerabile.

 

In questo romanzo scorrono, si intersecano, convergono tre storie: la storia della protagonista, la storia di un’analisi e la storia della narrazione stessa. La storia della protagonista è quella naturalistica della bambina, poi ragazza, poi donna quasi anziana alla quale «nessuno ha guardato nel cuore»; ed è parallelamente la storia di un’analizzanda che tenta di liberare sé stessa e la sua scrittura dal maleficio materno. La storia della narrazione, poi, mostra come l’atto stesso di scrivere si snodi o s’inceppi a seconda degli eventi evocati, proprio perché è la protagonista a scrivere la propria storia.

Come la scrive? Potrebbe ricorrere al classico io narrante di Agostino, di Proust o di Benjamin Constant. O alla seconda persona, il vous di Michel Butor ne La modification, che segue il suo personaggio come una coscienza parlante; o ancora con la terza persona di Henri James in What Maisie Knew. Invece inventa un’insolita combinazione di punto di vista soggettivo e terza persona: dove la voce narrante si pone alle spalle della protagonista che scrive, e riferisce, come in tempo reale, ciò che la scrivente, oggetto della propria narrazione, scrive di sé; ma riferisce anche a volte, spostandosi dalle parole scritte alla mente, ciò che la scrivente pensa o prova. Il che consente affascinanti variazioni di focus dalla narrazione alla meta-narrazione e, nella dimensione temporale, dalla vicinanza al distacco.

Freddezza e porte chiuse. La storia della protagonista appare tutta polarizzata dalla freddezza di una madre che, ci viene detto, preferisce alla primogenita la seconda figlia, detta “pseudosorella”. Una freddezza che si manifesta sotto forma di indifferenza, incomprensione, per non dire avversione. Emblematica è la non risposta della madre al dono del libriccino. Emblematica pure è la porta chiusa della cucina dove la madre s’intrattiene con l’altra bambina, escludendo la primogenita che non osa chiedere di entrare. Altri aspetti sono la scelta dell’orario più lungo all’asilo, i ritardi della madre nel venire a prendere la bambina alla chiusura, la mancanza di empatia in occasione di malattie della figlia e in genere una disattenzione, una tendenza a lasciarla sola a giocare nella sua stanza.

La bambina tuttavia trova compensazioni da altre parti: dal padre, dalle maestre dell’asilo, dalla capacità di giocare da sola, da fantasie consolatorie di cui tuttavia sarà questione solo alla fine del libro, e naturalmente dallo scrivere. Ma lo scrivere, che è la manifestazione più vitale, cade sotto la condanna della madre, per cui gli scritti rimarranno inconclusi, chiusi in un armadio – “armadio” è infatti la prima parola scritta dalla bambina.

Lo spegnimento. Quanto allo scritto principale, quello dal quale nasce questo libro, dopo il primo capitolo si trova a rischiare l’eliminazione, con uno spegnimento «involontario, ma diabolico», del computer che rappresenta una sorta di suicidio della scrittura. Tale evento, menzionato dalla scrivente senza enfasi, quasi en passant, è tuttavia ricordato dall’analista, che dà ad esso il giusto rilievo. Coincide con un momento in cui la protagonista che scrive evoca la sua morte possibile. Associato al tema del morire è il ricordo di un giardino nel quale da bambina si rifugiava, in una parte buia e umida che lei chiamava il tempietto. Rimaneva seduta a fantasticarsi principessa, godendo degli odori di muffa e di muschio che ricopriva le pietre. Però la madre non voleva che si fermasse lì in quel posto umido dove poteva prendersi la polmonite e poi morire. Scrivendo del tempietto la figlia si accorge che la tonalità del ricordo è cambiata. Da luogo incantato il posto diventa luogo nefasto e la reminiscenza segnala un desiderio di morte, in lugubre accordo con il pensiero della madre. L’unica luce è il pensiero delle persone – l’analista, il marito – capaci d’impedire lo «scivolamento» della protagonista fuori dalla vita, mentre la madre non l’avrebbe trattenuta.

Da questo contatto col tema della morte la protagonista esce come una «nuova Eva», non più nel paradiso terrestre ma in un mondo dominato dal male, e deve scrivere «guardando dove non si vorrebbe», senza badare al disconoscimento subìto da parte della madre che non voleva che scrivesse.

Una svolta mimetizzata. Se il lettore si fosse aspettato un evento clamoroso che rappresenti una svolta decisiva verso il raggiungimento più facile di mete attuali o il recupero di memorie più felici, dovrebbe ricredersi. Non vi è alcuna  teatralizzazione in queste pagine, nulla che venga messo in evidenza quale peripezia principale da cui discenda l’agnizione e la successiva catarsi. Eppure la decisione della protagonista di sopravvivere al male e di scrivere nonostante tutto è davvero una svolta, anche se mimetizzata in una delle tante esperienze rievocate e raccontate nell’analisi e nella scrittura.

Allo stesso modo la possibile revisione del processo alla madre non è la  scelta deliberata di voltare pagina, ma avviene, quando avviene, a piccoli passi, spesso seguiti da indietreggiamenti. Vi sono momenti in cui la madre appare in una dimensione più umana, per esempio quando entra nella stanza portando vestitini fatti da lei per la bambola della figlia. È allora che la figlia che scrive, pur ritenendo che la madre abbia voluto far piacere soprattutto a sé stessa, si chiede se non sia stata lei, figlia, incapace di cogliere quanto di buono sua madre avesse da darle. Il progetto di cercare di conoscere questa madre, al di fuori della dimensione soggettiva, è stato contemplato, ci viene detto, quale tema del secondo capitolo, ma la scrittura ha portato in altra direzione.

Emergono tuttavia piccoli mutamenti di prospettiva nella rappresentazione dei genitori. C’è innanzitutto l’irruzione di un ricordo gioioso della coppia che, in macchina, intona canti degli alpini e canzoni del ventennio. Un fatto isolato tuttavia, in un quadro dominato dalla mancanza di desiderio reciproco dei coniugi. Nella figura del padre, inizialmente positiva e generosa, affiorano tratti di narcisismo: neanche lui ha guardato nel cuore della figlia quando, incurante dei problemi di lei con la scrittura, le ha fatto leggere racconti scritti da lui. E forse pure con la moglie il padre ha mancato di sollecitudine. Rivisitando un’acquaforte di Rembrandt dove il pittore occupa quasi tutto lo spazio, la protagonista non interpreta più la moglie Saskia come una madre che, sebbene in scala ridotta, controlla tutto dal di dietro, bensì come una donna eclissata dall’uomo vanitoso in primo piano. Anche come figlia della propria madre, la madre ha trovato davanti a sé porte chiuse, come le aveva trovate sua madre, e così di generazione in generazione. Si apprende poi che, appena diventata madre, ha subìto critiche feroci dalla propria madre (nonna della scrivente), alla quale sarebbe stata costretta ad affidare la neonata per il primo anno di vita, a causa di un malessere indefinito. Poi, vittima pure della figlia che scrive, la madre incinta avrebbe abortito a causa di uno sforzo eccessivo imposto per gioco dalla bambina di tre anni.

Se non colpevole, la protagonista si ritrova comunque a condividere con la madre la condizione di vittima. Ma se nell’empatia e nell’identificazione recupera un legame, rischia di dover sacrificare alla madre la sua vocazione di scrittrice: rinunciare alla scrittura per solidarietà, se non per ubbidienza al volere della madre, come già avvenuto con altri scritti abbandonati.

Lacrimae rerum. Proprio riflettendo sulla solitudine della scrittura, nel doppio senso di “solitudine provocata dalla scrittura” e “solitudine inerente alla scrittura”, la protagonista ricorda il verso dell’Eneide sunt lacrimae rerum, “sono le lacrime delle cose”, che va inteso nel doppio senso, come   “si piange per le cose”, ma anche come “le cose piangono”. Viene alla luce così un altro elemento di condivisione con la madre: gli studi classici, il dizionario di latino che proveniva dal nonno. La scrittura non è più solo solitudine. È anche racconto, un racconto per dare forma ai fatti scombinati e per non essere lasciati soli. E ci sono qui pagine ispirate sui racconti intorno al fuoco, dove le persone possono riconoscere i fatti delle loro giornate, la sera in un West da film. La protagonista ricorda racconti di pionieri nella neve, fatti alla sorellina per addormentarsi nelle sere d’inverno. Ma ricorda anche «una mattinata fatata sul terrazzino della cucina», in cui la bambina seduta per terra scrive e cuce racconti di un giornale mentre la madre si  affaccenda nei pressi, ciascuna pacificamente occupata al proprio daffare.

Scrivere religiosamente. Sembra un idillio, ma non è conclusivo. Ci saranno altri ricordi crudeli, il perdono è lontano, forse indebito. Ma la vocazione della scrittura è ben presente e viene prima di tutto il resto. Compaiono, nelle ultime bellissime pagine, fantasie del passato remoto e recente: nel passato, un «mondo di sopra» immaginato dalla bambina, una società saggia e solidale che correggeva le brutture del mondo di sotto; più recentemente, la creazione di una figlia immateriale, Agata, mai nata, e tuttavia presente alla mente. A lei la protagonista che scrive confida che scrivere è «l’unica cosa religiosa che può fare»... «per il mondo e per gli umani di questa terra», uomini e donne e animali, «così che ciascuno, se legge, si conosce di più». E infine si permette un moto di simpatia per la madre che nei suoi ultimi giorni di vita stringeva a sé un libriccino di consigli per la bellezza, degli anni Venti, di quando era stata, da giovane donna, frivola e allegra.

 
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