Obama, artigiano del liberalismo
di Pierrette Lavanchy
 
Obama, artigiano del liberalismo
 
Pierrette Lavanchy
 
 
È un liberale, un liberal, Obama? E se sì, di che tipo di liberale si tratta? Sono le due domande che si pone John Cassidy sul New Yorker del 22 gennaio 2013. La questione assume tutto il suo senso se ci ricordiamo che il liberal statunitense raccomanda in economia l’intervento statale, contrapponendosi al conservative, che predica il liberismo. Il giornalista svolge le sue argomentazioni cominciando dall’opinione più diffusa tra i commentatori, secondo i quali, nel discorso inaugurale di Obama al suo secondo mandato presidenziale, si troverebbe la massima espressione liberale di tutti gli ultimi Presidenti democratici. Ma è proprio così? È vero, Obama non può essere considerato un Presidente socialista, e probabilmente Goldman Sachs non ha niente da temere dal suo governo. Anche le opinioni e le azioni di Obama per aumentare il commercio non vanno al di là dei punti di vista dei Presidenti repubblicani. Senza contare che la filosofia di Obama per far fronte al terrorismo ha continuato e forse accentuato molte delle politiche illiberali ereditate da George W. Bush.
Secondo Cassidy, si potrebbe dire che Obama, come molti democratici, è, alla base, un liberale del New Deal. Che cosa vuol dire? All’ingrosso, con il termine di New Deal si intende l’insieme dei programmi economici dettati dal Presidente democratico Franklin Delano Roosevelt tra il 1933 e il 1936, in risposta alla Grande Depressione, e riassunti nelle cosiddette tre R: Relief, Recovery, Reform, cioè aiuti per uscire dalla disoccupazione, recupero dell’economia a livelli normali e riforma del sistema finanziario. Quanto a Obama, il Presidente sembra credere in un capitalismo limitato da regole e in un’adeguata rete di social safety. Nello stabilire il principio dell’assicurazione medica universale Obama si è garantito il titolo storico di aver completato l’opera di Franklin D. Roosevelt quanto alla Social Security e l’opera di Lyndon Johnson quanto a Medicare (l’assicurazione per anziani) e Medicaid (l’assicurazione per i meno abbienti). Analogamente, con il Dodd-Frank Act, ha riconosciuto che la liberalizzazione dei mercati poteva avere effetti negativi come effetti positivi, e che di conseguenza anche il mercato andava sottoposto ad alcune regole restrittive. Accanto alla regolazione, l’altra parte rilevante dell’eredità del New Deal è la redistribuzione (avete notato che tutte queste parole chiave del New Deal cominciano per R: Relief, Recovery, Reform, Regulation, Redistribution?). Per attuare una adeguata politica di redistribuzione ha certo importanza la progressività dell’imposta sul reddito. Per esempio, the top rate of income tax, cioè il tasso più alto dell’imposta sul reddito era nel 1920 del 23%; negli anni trenta fu alzata da F.D.R. al 79% e durante la seconda guerra mondiale al 94%; nel dopo guerra fu abbassata dai vari Presidenti fino al 70% negli anni sessanta e settanta; attualmente i più ricchi hanno una tassazione inferiore.
Ma lasciando da parte l’economia, la componente centrale del liberalismo americano sono i diritti civili. Secondo John Cassidy, Obama è stato piuttosto cauto, durante il suo primo mandato, sul tema delle donne e dei gay. Con il discorso inaugurale del secondo mandato, le cose sembrano essere cambiate, tanto che alcuni ne parlano come del più importante discorso sui diritti dei gay nella storia d’America. Tuttavia Cassidy resta critico, accusando Obama di cinismo, nel senso che enfatizzare i diritti civili non aumenta le spese, non costa niente, e in particolare non implica complesse negoziazioni con i Repubblicani; in particolare Obama non avrebbe preso di petto quasi mai il retaggio del razzismo e dello schiavismo. E pone a Obama alcune domande cruciali: perché, quando parla del gender gap in wages, del divario nei salari tra uomini e donne, non parla anche del racial gap, delle disparità sociali che sono forse anche più grandi, o delle differenze nell’attesa di vita, nelle incarcerazioni, nella mobilità sociale, e in qualsiasi altro indicatore di successo o di benessere?
La risposta è che forse il Presidente Democratico teme reazioni violente da parte del Repubblicani, anche perché è limitato dall’impasse del Congresso a maggioranza avversaria. Allora sceglie di intervenire sui racial gaps in modo indiretto, per esempio facendo beneficiare gli Afro-americani, che rappresentano le quote più alte di disoccupati e di redditi bassi, di sussidi per la sotto-occupazione, o abbassando la soglia per l’accesso a Medicaid, o aumentando i crediti d’imposta. In fondo Obama sarebbe un liberale moderno di Washington, il quale, in una nazione dove al termine stesso di liberale è spesso associata una valenza peggiorativa, è costretto a diventare un crafty liberal, che si può tradurre sia con “liberale scaltro”, sia con “artigiano del liberalismo”per dire che deve ricorrere più spesso al compromesso che non alla dichiarazione gridata: e infatti Obama parla piuttosto di “opportunità” che non di “uguaglianza”, come Clinton parlava di “responsabilità” e “obblighi”, piuttosto che non di “diritti” e “prerogative”.
Il problema comunque che consegnerà alla Storia Obama oppure no riguarda la soluzione oppure no dell’entitlements crisis, ovvero del deficit che la spesa sociale, per la Social security, Medicare e Medicaid, mette a carico del budget federale, col rischio di intaccare i fondi destinati agli investimenti in infrastrutture, educazione e ricerca. Si tratta di vedere se il Presidente lascerà ai suoi successori la bomba a orologeria della spesa per Obamacare, o se elaborerà un piano per la riduzione del deficit (entitlements reform), che preserverebbe le sue realizzazioni liberal per le generazioni future e gli assicurerebbe un posto insieme a Franklin D. Roosevelt e Lyndon Johnson. Sempre che sia politicamente fattibile.
 
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